La “celebrazione della diversità”, spesso elogiata soprattutto da noi Europei (“Uniti nelle diversità!”), se deve essere presa sul serio, non può semplicemente concepire la cultura come una sorta di folklore, tanto per fare colore, ma deve accettare implicitamente e consentire un pluralismo di forme politiche; poiché le culture si basano spesso su principi fondamentali non solo diversi ma spesso opposti. Questo tipo di pluralismo comporta necessariamente un certo grado di agonismo e di territorializzazione. Questo agonismo deve essere legittimato entro confini specifici, in particolare per quanto riguarda il costante pericolo del massimalismo e della degenerazione in guerra totale.
Oggi, siamo di fronte a due modelli antitetici: la Russia persegue l’unione nella diversità, cercando ciò che unisce seppur nelle inevitabili differenze; l’America alimenta ed esalta le “differenze”, con l’obiettivo di appiattirle tutte quante su una parvenza di unità posticcia che si regge non sul riconoscimento della fondamentale unità delle rispettive radici e tradizioni (“modello russo e quindi europeo”), quanto su un “contratto sociale” di tipo utilitaristico che permette, proprio a scapito delle radici e delle tradizioni, di dare libero sfogo alle “libertà individuali”.
In questo quadro, l’Europa non è capace di proporre una strategia di politica estera indipendente, una prospettiva culturale moderna che tenendo conto di millenni di storia, si elevi a modello valido per le civiltà democratiche. Preferisce abdicare delegando di fatto l’America. Obama non ha quindi mancato di proclamare la validità universale di quelli che ha definito, parlando a nome dell’Occidente globale, “i nostri ideali”. “Gli ideali che ci uniscono – ha detto – hanno la medesima importanza per i giovani di Boston e di Bruxelles, di Giacarta e di Nairobi, di Cracovia e di Kiev”. E a proposito di Kiev ha dichiarato che “è proprio questa la posta in gioco oggi in Ucraina”: ossia l’imposizione degl’interessi geopolitici atlantici e della visione ideologica occidentale.
È vero che la radice della guerra fredda – intesa non come “un segmento di storia ma [come] una curvatura permanente della geopolitica contemporanea” – è geopolitica prima che ideologica. Come dichiara in maniera franca e realistica il recente editoriale di una rivista di ispirazione occidentalista, “per l’America si tratta di garantirsi contro l’emergere di una potenza rivale in Eurasia. Poco importa se comunista, buddhista o vegana”.
Dal canto suo, la tesi secondo cui la Russia costituisce una civiltà a parte, uno “Stato-mondo”, rappresenta una premessa su cui potremmo fondare le nostre previsioni sullo sviluppo delle relazioni tra la Russia e l’Occidente. In questo caso, la percezione dell’Occidente (nonché della modernità, in tutte le sue forme), in tutti i sensi della parola, da quello storico fino a quello dei valori e dei significati ideologici, corrisponde ad un male; è una concezione negativa, un’antitesi hegeliana, qualcosa che deve essere respinto, sconfitto, superato, esaurito e, in una prospettiva a lungo termine, annientato. Questo punto di vista era condiviso dagli Zar russi del periodo moscovita (i quali vedevano nell’Europa “un impero di eretici”, “di papisti e luterani”), dagli slavofili (specialmente dai più recenti), dai populisti russi, dagli eurasiatisti e dai comunisti (in conformità con la loro specifica ideologia di classe). Partendo da questa prospettiva, le relazioni tra la Russia e l’Occidente devono essere costruite secondo un criterio diverso. Questa posizione può essere definita come radicalmente antioccidentale. La civiltà russa deve ingaggiare un combattimento finale e decisivo. Un postulato del genere porta alla negazione totale di quella via di sviluppo su cui si è incamminato l’Occidente e coloro che, volenti o nolenti, si sono trovati nella sua area d’influenza.
Resta tuttavia il fatto che, se la Russia ha una sua visione geopolitica, essa non dispone però di una sua ideologia da contrapporre a quella occidentale. Eppure, come reclama Aleksandr Dugin, “la Russia, intesa come civiltà, non può, ma deve avere valori propri, diversi da quelli delle altre civiltà”.
Oggi l’esigenza di richiamarsi ai princìpi ispiratori della propria civiltà non riguarda soltanto la Russia, ma tutte le aree in cui si articola il continente eurasiatico e quindi tutte quelle forze che condividono la prospettiva di un’Eurasia sovrana. Gábor Vona ha espresso chiaramente tale esigenza: “Non ci può bastare – afferma il politico ungherese – un’alternativa semplicemente geografica e geopolitica, ma avvertiamo la necessità di un eurasiatismo spirituale. Se non siamo in grado di assicurarlo, allora la nostra visione rimane soltanto una diversa concezione politica, economica, militare o amministrativa, capace sì di rappresentare una diversità strutturale, ma non una rottura di livello qualitativa di fronte alla globalizzazione occidentale.
Ci sarà un polo politico opposto, ma non una superiorità qualitativa.
Tutto ciò può creare le basi per una nuova guerra fredda o mondiale, nella quale si affronteranno due forze antitradizionali, come è avvenuto nel caso dell’URSS e degli USA, ma certamente non sarà possibile contrastare il processo storico della diffusione dell’antitradizione.
Per noi Europei invece sarebbe proprio questo l’essenziale. Dal nostro punto di vista, è inconcepibile uno scontro in cui una globalizzazione si contrapponga ad un’altra globalizzazione”!
Ma l’Europa? L’Europa liberaldemocratica, anziché sottrarsi all’egemonia statunitense ed avviare la costruzione di una propria potenza politica e militare nel “grande spazio” che le compete nel continente eurasiatico, stabilendo un’intesa solidale con le altre grandi potenze continentali, sembra impegnata a rinsaldare la propria collocazione in un angolo dell’area occidentale ed a perpetuare il proprio asservimento nei confronti del disegno nordamericano il cui reale intento è quello di evitare la de-dollarizzazione del mondo, preservare la propria potenza economica in un mondo unipolare e il travasamento della ricchezza dall’Europea all’America. Tutti noi assistiamo oggi alla realizzazione in Europa del disegno unico: l’appiattimento dei valori europei e l’annientamento della classe media.
In tal modo l’Unione Europea coopera attivamente alla realizzazione del progetto di conquista elaborato dagli strateghi della Casa Bianca, secondo il quale l’Europa deve svolgere la funzione di una “testa di ponte democratica” [the democratic bridgehead] degli Stati Uniti in Eurasia. Scrive infatti Zbigniew Brzezinski: “L’Europa è la fondamentale testa di ponte geopolitica dell’America in Eurasia [Europe is America’s essential geopolitical bridgehead in Eurasia]. Il ruolo dell’America nell’Europa democratica è enorme.
Per poter perseguire la prospettiva politica, culturale e geopolitica di un’alleanza strategica fra i continenti europeo ed asiatico contro l’egemonismo massificante americano, prospettiva che ha come presupposto una certa idea di Europa militarmente autonoma dagli USA, l’Unione Europea e le cancellerie europee hanno scelto la via più facile cioè di collaborare con Washington nel tentativo di ristrutturare il Nordafrica e il Vicino Oriente in conformità coi progetti statunitensi e si sono allineate col Dipartimento di Stato nordamericano nel sostenere la sovversione golpista in Ucraina, al fine di impedire che questo Paese confluisca nell’Unione doganale eurasiatica e trasformarlo in un avamposto della NATO nell’aggressione atlantica contro ciò che non è con-prensibile, assimilabile, uniformabile: la Russia.