Le elezioni europee sono passate e il 26 giugno il Consiglio europeo – composto dai 28 governi europei – dovrà trovare un accordo sui nuovi uomini e donne che guideranno le istituzioni europee e l’Unione europea. Mentre si accavallano nomi dei possibili nuovi responsabili, non si è aperto un vero dibattito sulla sostanza di che cosa debba essere l’Ue e su come essa debba funzionare. Solo indicazioni, a volta frutto più di esigenze nazionali che di una visione di respiro europeo destinata a durare per un certo tempo. Dello slogan “sempre più unità europea” si sente sempre meno l’eco. Prevale l’idea di un adattamento tattico del discorso politico europeo che in qualche modo soddisfi un po’ tutti senza mettere in discussione l’orientamento complessivo dell’Ue e che non indebolisca la tenuta dei governi nazionali. Insomma, un populismo europeista che limi i denti rigoristi del centralismo brussellese a favore di una pennellata di decentramento che permetta interventi di politica economica più attenti al sociale.

 

Si deve notare che il premier italiano, Matteo Renzi, è stato l’unico a dire che prima si decide che fare e poi si trova un accordo su chi lo fa. Tuttavia, oltre a qualche indizio di ciò che non vuole – applicazione rigida delle regole fiscali e sul debito – Renzi non ha chiarito quale sia la proposta italiana per risolvere il pasticcio istituzionale europeo e per definire obiettivi utili e realizzabili con metodi il più possibile rispettosi delle sovranità culturali, politiche e statali che compongono l’Ue. Oltre ad un logo stilizzato, al momento non si conosce il programma reale del semestre di presidenza del Consiglio europeo che inizierà il 1 luglio prossimo. Del sito, non ancora visibile, si sa che linguisticamente sarà solo in italiano e in inglese. Tuttavia, per quanto simbolicamente importante, la presidenza di turno è stata caricata di aspettative che vanno ben al di là delle funzioni reali che essa potrà assolvere. Dal punto di vista strettamente operativo i poteri della presidenza di turno sono modesti dopo il Trattato di Lisbona entrato in vigore nel 2009 che attribuisce poteri più incisivi al presidente permanente dell’Ue. Però, se il presidente di turno avesse una forte proiezione e attrattività politica, è certo che potrebbe dare un impulso al cambiamento. Per Renzi non è facile perché nonostante sia il più grande tra i partiti del gruppo S&D, il suo governo deve scontare l’immagine negativa che l’Italia ha costruito negli anni passati, fatta di instabilità e inaffidabilità. Inoltre, S&D è comunque arrivato secondo alle elezioni ed è molto probabile che, come anche il gruppo dei democristiani (Ppe), sarà presieduto da un tedesco.

 

Dalla Francia non sono pervenute idee ma segnali di sottrazione delle questioni europee al dibattito politico interno dopo la recente avocazione del dipartimento affari europei all’Eliseo, così rendendo ancor meno possibile l’intervento dell’Assemblea nazionale su tali questioni. Dalla Germania arrivano segnali contrastanti. Da un lato, resta valida la proposta (del 2002) del rigorista ministro delle finanze Schauble, un democristiano doc, che proponeva la costruzione di un vero parlamento democratico dei 18 paesi dell’eurozona da affiancare alla Bce. Dall’altro, la posizione dei socialdemocratici che tramite il vicecancelliere Gabriel indicano posizioni marcatamente pro-Atlantiche (Ttip e shale gas, ad esempio) senza aggiungere idee concrete per la riforma dell’Unione, e lasciando il candidato S&D, Martin Schulz, al suo destino parlamentare. Nel Regno Unito lo sguardo europeo è tutto concentrato sugli affari interni del regno che è confrontato al referendum di indipendenza della Scozia (settembre 2014), alle posizioni nazionaliste del partito dell’indipendenza (Ukip), che ha vinto le elezioni europee, e alle necessità del governo conservatore di Cameron di arrivare al referendum del 2017 sull’Ue da una posizione il più possibile forte. Degli altri paesi membri, si può vedere che il gruppo dei 4 di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) così come la triade balcanica (Croazia, Bulgaria e Romania) sono immobilizzati nella convergenza anti-russa e pro-Atlantica. Dei restanti 17 paesi si deve considerare il loro basso peso relativo che li porterà ad allinearsi con i quattro più grandi.

 

Resta il fatto che l’Unione europea così com’è non piace più ai suoi cittadini: il 55% non ha votato e il 30% dei votanti si è espresso in modo molto critico se non ostile.

 

Sapendo che le migliori decisioni europee si adottano in momenti di crisi, come diceva Jean Monnet, varrebbe la pena evitare la politica dello struzzo e affrontare i temi sostanziali che vanno risolti. Illudere i cittadini che la crisi è finita e che la ripresa è a portata di mano potrebbe rivelarsi un drammatico errore politico che non tarderà ad esplodere nelle piazze europee.

 

Seguono alcune idee (semplici) per rilanciare il dibattito sull’Europa che vorremmo. Magari qualcuno tra gli “europeisti” oppure tra gli “alter-europeisti” potrebbe farsene carico e iniziare a lavorare per una nuova convergenza politica verso una nuova Europa.

 

  1. Bruxelles è un ghetto: ci vuole una nuova geografia istituzionale europea!

 

È finito il tempo della centralizzazione europea in un luogo avulso dai nodi antropo-economici europei, cioè le grandi aree metropolitane. Si deve pensare una nuova geografia delle istituzioni europee che le avvicini (anche fisicamente) alla maggioranza della popolazione. I simboli contano moltissimo nell’immaginario collettivo e il Rond Point Schuman di Bruxelles non è mai diventato un simbolo (anzi è un’accozzaglia di brutti palazzoni con un cantiere stradale permanente).

 

La distribuzione su base territoriale di qualche agenzia europea o dei centri di ricerca non ha dato alcun frutto. Infatti, ciò che deve uscire dal ghetto brussellese sono i centri decisionali europei. La Bce a Francoforte è stato un successo. Invece, la Corte e la Bei a Lussemburgo sono un eccesso che ha prodotto solo un sub-ghetto.

 

Negli anni passati, il compianto Franck Bianchieri, aveva ipotizzato la creazione di “anelli istituzionali” europei nelle aree metropolitane, collegati con i treni ad alta velocità e per via telematica. Non si è fatto nulla, anzi si è mantenuta l’assurda doppia sede del Parlamento europeo a Bruxelles e a Strasburgo (che si raggiunge con automobili e camion; tutti i mesi si spostano più di 3000 persone!).

 

  1. La Commissione europea è pletorica: ci vuole una distribuzione delle responsabilità efficiente e comprensibile!

 

È finito il tempo di dover offrire una poltrona di Commissario a ciascuno dei 28 paesi e quella di vicepresidente ad una mezza dozzina di accontentabili. Sono ridicoli 28 portavoce e briefing giornalieri alla stampa (spesso inutili e vuoti di contenuti). Anche le riunioni ufficiali del collegio dei commissari settimanali sembrano eccessive: sarebbero sufficienti accordi tra i capi di gabinetto (cosa che nella realtà avviene già). Si deve applicare l’approccio divisionale, come avviene nelle corporation che funzionano, e abbandonare la concezione dei “portafogli” come terreno di caccia del rappresentante nazionale di turno.

 

Insomma basterebbero un presidente e un solo vicepresidente esecutivo, con al massimo una mezza dozzina di commissari che abbiano un vero mandato politico, concordato tra i governi e il parlamento europeo. Tutto il resto devono diventare divisioni operative e tecniche.

 

Quanto agli obiettivi, attualmente l’Ue ne propone un ventaglio frastagliato e spesso incoerente, dovrebbero essere 3 o 5 da realizzare entro il mandato. Il giudizio dei cittadini, su istituzioni europee e governi nazionali, dipenderà dal raggiungimento degli obiettivi.

 

Le grandi campagne decennali e ventennali, sistematicamente disattese e rinviate, dovrebbero essere abolite.

 

La “festa dell’Europa”, che si festeggia solo nelle istituzioni europee, se ha senso deve diventare comune e festiva in tutti i paesi membri. Altrimenti meglio abolirla.

 

 

  1. Gli affari esteri non c’entrano con l’Europa.

 

Sarebbe tempo che una decisione comune dei 28 governi riconoscesse che gli affari europei sono affari interni e nulla hanno a che fare con gli esteri. Quindi, tutti i paesi dovrebbero omologarsi a creare strutture simili di coordinamento per gli affari europei che siano poste, nel sistema istituzionale nazionale, in un ufficio alle dirette dipendenze del presidente del governo o del paese. Il personale dei vari ministeri competenti per settore deve essere funzionalmente diretto dall’ufficio Europa. Questa “rivoluzione” creerebbe efficienza e risparmio. Inoltre, lo statuto di “organizzazione internazionale”, extra territoriale ed extra fiscale, delle istituzioni europee non ha più ragion d’essere.

 

Bruxelles è un “riunionificio” che beneficia soprattutto albergatori, linee aeree, e ristoranti. Più del 50% delle persone che partecipano alle riunioni a Bruxelles ricevono diarie o compensi ingiustificabili. Molte delle riunioni si possono svolgere per via telematica, senza spostamenti continui di persone (e ahimè anche di faldoni cartacei!).

 

Inoltre, facendo rientrare l’Europa negli affari interni nazionali si risolverebbe anche l’annosa (quanto vacua) questione della democraticità delle istituzioni europee. Esse, infatti, diventerebbero una risorsa che gode della delega nazionale, offerta dai governi democratici europei. Qualcuno si è mai posto la domanda se un ministero nazionale fosse democratico? Quindi il giudizio di democraticità sull’Europa lo si esprime a livello nazionale e si finisce con la litania democratica europea che crea solo ulteriori baracconi di dubbia efficienza e utilità (ad esempio l’Obudsman europeo!).

 

  1. Ci vogliono molti “Compact”!

 

Sono passati quasi 70 anni dalle prime mosse dell’integrazione europea. Pochissimo si è fatto per creare curriculum di studi – dalle elementari all’università – che seguano l’esperimento della Schola Europea o delle sue poche accademie. Le scuole europee sono rimaste dei ghetti per i funzionari delle istituzioni (ma il trattato che le istituiva prevedeva ben altro!).

 

La mobilità degli studenti universitari e dei ricercatori deve essere ampliata e potenziata. Inoltre, si dovrebbe prevedere che essa diventi una regola di merito anche per le carriere pubbliche (è previsto ma nulla si è fatto, tranne che tra Francia e Germania). Immaginate l’utilità che avrebbe un “servizio di leva civile” di tre anni da svolgere presso strutture di un altro paese!

 

Insomma, il modo per far succedere quanto sopra, e molto di più, non sono dichiarazioni di principio ma delle decisioni cogenti sul modello del Fiscal Compact, che è così detestato proprio perché è unico e solo nel suo genere!

 

  1. Eurogruppo e Euro sono dei feticci!

 

È incredibile che dopo 12 anni dall’entrata in vigore dell’Euro, l’organo intergovernativo di controllo – l’Eurogruppo – sia rimasta “una riunione informale” mentre la Bce ha una sua autonoma politica monetaria e la Commissione esercita il compito del notaio testamentario. Anche un bambino si rende conto che così non va! Non c’è da meravigliarsi se l’Euro e l’Eurogruppo sono diventati i feticci del malcontento popolare.

 

Visto che l’Euro ce lo vogliamo o dobbiamo tenere, che l’Eurogruppo diventi la vera istituzione governativa dei 18 membri, come dice Schauble affiancato da un parlamento composto di delegati dei parlamenti nazionali che esercitano il controllo democratico, e che la Bce diventi una vera banca centrale.

 

Visto che i simboli contano, sarebbe interessante organizzare delle gare europee per disegnare le nuove banconote e le monete con simboli che abbiano un significato nell’immaginario delle persone. Attualmente le figure sono più asettiche di un laboratorio di analisi! Perché non pensare anche ad una bandiera comune dei 18 paesi membri e ad un inno che risvegli il senso di identità comune?

 

  1. Consigli europei e Parlamento europeo

 

I Consigli europei sono molto frequenti e piuttosto operativi. Molto del lavoro che svolgono potrebbe farsi per via telematica. Ma sarebbe utile che fossero istituzionalizzati con sedi rappresentative stabili e distribuite nei vari paesi.

 

Invece, il Consiglio dell’Unione europea, quello dei capi di stato e di governo, che attualmente si riunisce ogni semestre a Bruxelles, è poco operativo e si risolve fondamentalmente in una foto opportunità. Ha senso continuare a tenerlo ogni semestre? A questi dubbi si aggiunge la presidenza di turno, anch’essa semestrale. Ma che cosa può fare un governo, specie se di un piccolo paese, in sei mesi? Nulla, a parte qualche ricevimento e degli annunci. Insomma, sarebbe il caso di abolire anche questa pratica che è superata dal Trattato di Lisbona.

 

Il Parlamento europeo è l’istituzione più problematica. Dal 1979 dovrebbe essere l’organo di controllo democratico dell’Unione europea. Così non è e in genere produce decisioni senza effetti e attività prevalentemente inutili. Se si vuole mantenere questa assemblea di eletti, che almeno il sistema di elezione diventi comune in tutti i 28 paesi membri. Quanto al suo mandato, non si capisce bene a cosa dovrebbe servire visto che le decisioni intergovernative sono adottate da governi democratici che già rispondono a parlamenti democratici nazionali. Nella situazione istituzionale attuale dell’Ue, il Parlamento partecipa su qualche materia in un estenuante dialogo con la Commissione e il Consiglio. Alla fine, nella maggioranza dei casi il Parlamento e il Consiglio si “alleano” e la Commissione perde in effettività ed efficienza. Se proprio si deve continuare ad avere un Parlamento europeo che si riesca a dotarlo di pochi e concreti poteri. Ad esempio, in materia di bilancio ciò è avvenuto e ha prodotto qualche risultato. Sarebbe interessante, in futuro, prevedere che certi compiti di controllo e verifica presso le istituzioni nazionali fossero svolti proprio da speciali commissioni parlamentari europee invece che dagli organi autocratici della Commissione e del Consiglio.